La giurisprudenza è costante nel ritenere che né il licenziamento per ragioni economiche organizzative né il recesso anticipato per ragioni diverse dalla giusta causa può trovare applicazione nei contratti di lavoro a tempo determinato.
La giurisprudenza ritiene che il licenziamentoper ragioni economiche organizzative risulta inconciliabile con i contratti a termine perché tale tipo di contratto risponde alla necessità per il datore di lavoro di reagire a situazioni che rendono oggettivamente non più conveniente mantenere in vita il rapporto di lavoro.
Per quanto concerne il recesso anticipato, questo è ammesso solo in presenza di una giusta causa, ossia di un fatto di gravità tale da non consentire la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto di lavoro. Pertanto, il datore di lavoro può recedere dal contratto a tempo determinato solo allorquando il lavoratore si renda inadempiente adottando una condotta da compromettere irrimediabilmente il vincolo fiduciario. Analogamente, il lavoratore può recedere dal contratto a termine solo in presenza di una situazione che renda giustificabile le dimissioni (dimissioni per giusta causa, come quelle indotte da situazioni di mobbing o per mancato pagamento della retribuzione).
Secondo costante giurisprudenza, se a recedere è il datore di lavoro, il lavoratore ha diritto a ricevere le retribuzioni che avrebbe percepito ove il contratto si fosse concluso alla scadenza prefissata (Trib. Roma, 28 settembre 2020, n. 4817). In questo caso, i giudici considerano le retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito fino alla scadenza del contratto un parametro utile a risarcire tanto il danno emergente che il lucro cessante (Trib. Chieti, 14 luglio 2020, n. 132).
Quando invece a recedere anticipatamente senza una giustificazione è il lavoratore, la posizione della giurisprudenza è più rigida di fronte alla richiesta - abbastanza diffusa - del datore di lavoro di farsi corrispondere una somma a titolo di risarcimento del danno pari al valore delle retribuzioni che il dipendente avrebbe percepito se non si fosse dimesso. In questi casi, perché la richiesta di risarcimento venga accolta la giurisprudenza chiede al datore di lavoro di dimostrare che il recesso improvviso dal rapporto di lavoro ha determinato un danno all’organizzazione produttiva. In caso contrario, il lavoratore nulla dovrebbe al datore di lavoro, sebbene, come detto, il recesso anticipato da un contratto a tempo determinato non sia consentito se non a fronte di una giusta causa.
Ammesso che il datore di lavoro riesca a provare la sussistenza di un danno, per la quantificazione di detto danno, la giurisprudenza, anziché ricorrere al medesimo criterio utilizzato per il recesso anticipato del datore di lavoro (retribuzioni dovute fino alla scadenza del contratto), è orientata a fare ricorso alla valutazione equitativa del risarcimento del danno, condannando il lavoratore a corrispondere una somma pari all’importo dell’indennità di preavviso dallo stesso dovuta. In linea di massima, quindi, sebbene nel rapporto a tempo determinato l’indennità di preavviso non sia dovuta, se il lavoratore recede senza giusta causa, il datore può chiedere i danni, chiedendo la determinazione degli stessi in via equitativa, che il giudice, tendenzialmente, liquida per un importo pari all’indennità di preavviso (Trib. Perugia, 27 gennaio 2016, n. 28).
Avv. Guido Brocchieri
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