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Cassazione: Diritto di critica (licenziamento) e Licenziamento verbale (onere probatorio)





Diritto di critica - licenziamento


È illegittimo il licenziamento di un direttore generale per aver segnalato al Consiglio di amministrazione alcune irregolarità contabili e la possibile configurazione di reati.


La Suprema Corte è tornata a pronunciarsi su un tema dibattuto: quello dei limiti del diritto di critica di un dirigente nei confronti della proprietà e dei consiglieri di amministrazione, e della conseguente legittimità del licenziamento intimato per ritenuto superamento di tali limiti.


Un direttore generale recentemente assunto aveva segnalato, nel corso del consiglio di amministrazione convocato per l’approvazione del bilancio del precedente anno, alcune irregolarità contabili in grado di esporre la società al rischio di commettere un reato. La società lo aveva licenziato per giusta causa in quanto le critiche da lui svolte erano risultate sostanzialmente infondate. In giudizio, la Corte di Cassazione, annullando l’impugnata decisione della Corte d’appello, ha accolto il ricorso del dirigente, ricordando che le denunce penali da parte di dipendenti di reati commessi dalla società non possono dar luogo a licenziamento, anche se non siano dotate di continenza formale e sostanziale e risultati non veri, salvo il caso che siano espressione di un intento persecutorio del dipendete. E ciò perché l’interesse che muove il dipendente è un interesse pubblico costituzionalmente protetto di rango superiore rispetto all’onore eventualmente leso. Questa essendo la regola, tanto più dev’essere tenuto indenne il dipendente, che prima ancora della denuncia penale, segnali il rischio alla società, come nel caso in esame (cfr., Corte di Cassazione 31 maggio 2022, n. 17689).


Licenziamento verbale - onere probatorio


La Suprema Corte ha affermato che il dipendente che impugni il licenziamento allegandone l'intimazione senza l'osservanza della forma scritta ha l'onere di provare, quale fatto costitutivo della domanda, che la risoluzione del rapporto è ascrivibile alla volontà datoriale, seppure manifestata con comportamenti concludenti, non essendo sufficiente la prova della mera cessazione dell'esecuzione della prestazione (cfr. Corte di Cassazione 18 maggio 2022, n. 16013).

Avv. Guido Brocchieri


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