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Origine dei prodotti importati in Europa




Stabilire l’origine dei prodotti importati in Europa ha una particolare importanza, in quanto – secondo il Paese dal quali essi possano originare – imposte o diritti doganali possono essere applicati all’atto dell’entrata nell’Unione Europea.

Al fine di comprendere a pieno cosa s’intenda con “Regola d’Origine”, è opportuno definire in maniera migliore tale termine secondo il diritto comunitario, facendo in particolare riferimento al Regolamento EU n. 952/2013, che al riguardo dispone che:

(i) I prodotti interamente ottenuti entro un singolo Paese o territorio devono ritenersi come aventi origine in tale Paese o territorio;

(ii) I prodotti la manifattura dei quali coinvolga più di un Paese o territorio, devono ritenersi come aventi origine nel Paese o territorio nel quale siano stati soggetti all’ultimo processo o lavorazione giustificato dal punto di vista sostanziale ed economico, in uno stabilimento attrezzato a tale scopo, dal quale sia uscito un prodotto nuovo o che costituisca una fase significativa della produzione in questione (articoli 32-34 e 60 del Regolamento UE 2446/2015).

Nel mentre alcuni Stati extra-UE (in particolare, i Paesi in Via di Sviluppo) godono di un trattamento preferenziale (ossia, ridotti diritti doganali o tassazione all’importazione), l’origine “non preferenziale” costituisce la norma generalmente applicabile ai prodotti provenienti da Paesi (tra i quali, U.S.A. e Cina) con i quali l’Unione Europea non abbia stipulato appositi accordi: in tal caso, l’importo ordinariamente applicabile dei diritti doganali sulla base della Tariffa Doganale comune dell’Unione Europea, viene appunto riscossa all’atto dell’importazione in Europa dei relativi prodotti.

L’attuale complessità dei processi di produzione comporta che molti prodotti industriali siano il risultato della combinazione di molteplici processi e fasi produttive, che si svolgono in svariati Paesi, compreso l’uso di materie prime di differente origine.

Al fine di combattere possibili frodi connesse alla produzione sulla base di processi condotti in molteplici Stati, tale da poter causare dubbi sull’origine di un prodotto, l’OLAF (Ufficio Europeo Anti-Frodi) conduce indagini su molti possibili casi, di solito a seguito di denunce presentate da terzi interessati (compresi gli imprenditori europei concorrenti dei produttori extra-comunitari che esportano verso l’Europa). L’OLAF pubblica relazioni, normalmente consultate dalle locali autorità doganali all’atto di esaminare prodotti che siano importati nel territorio dell’Unione Europea. A volte, tuttavia, tali autorità doganali applicano le conclusioni o raccomandazioni contenute nelle relazioni dell’OLAF senza esaminare in dettaglio i prodotti importati, ossia senza verificare se effettivamente vi possa essere una vera e propria frode nella loro dichiarazione di origine (avente l’intento di corrispondere diritti doganali in maniera ridotta).

La Corte di Cassazione italiana (sezione tributaria, Ordinanza del 24 Luglio 2020 (2 Luglio 2019) n. 15864 ha di recente ritenuto che, laddove l’origine di un prodotto sia determinata solo facendo riferimento ad una relazione dell’OLAF ma senza alcuna prova effettiva dell’irregolarità dell’operazione d’importazione nella specie, tale determinazione sia invalida. Questo, in quanto si deve sempre applicare il principio fondamentale di diritto che l’importatore/contribuente fiscale debba in ogni caso avere la possibilità di contestare le conclusioni della relativa relazione dell’OLAF, nonché di dimostrare che tale relazione non si riferisca nello specifico all’importazione del prodotto soggetta all’ispezione doganale.

Nel caso di specie vagliato dalla Corte di Cassazione, secondo l’agente doganale l’origine di certi prodotti d’acciaio che erano stati dichiarati come provenienti dalla Thailandia, era invece da ritenersi essere cinese: a causa della ritenuta origine differente, l’agente doganale non voleva applicare il trattamento preferenziale doganale che avrebbero avuto quei prodotti se fosse stata effettivamente produzione di origine thailandese, in ciò confortato da una relazione dell’OLAF al riguardo. Veniva pertanto applicato un dazio doganale anti-dumping dell’85%.

E’ d’uopo notare al riguardo come, nella fattispecie in questione, la relazione dell’OLAF si limitasse ad informare le autorità doganali italiane dell’eventualità dell’evasione dei dazi anti-dumping, solo in quanto il fornitore risultava incluso in una lunga lista di imprese che erano ritenute aver cessato le loro attività commerciali. L’agente doganale non aveva a sua volta effettuato alcuna verifica effettiva sulla vera e propria origine dei prodotti oggetto di tali dazi, affidandosi a tale presupposizione.

La Corte di Cassazione - dopo aver escluso la validità come prova privilegiata delle relazioni ed informative dell’OLAF – ha pertanto ritenuto che, tenuto conto dell’avvenuta dichiarazione di origine dalla Thailandia dei prodotti importati, al fine di stabilire se essi dovessero essere assoggettati a dazi anti-dumping, due alternative avrebbero dovuto essere perseguite: l’adozione da parte del Consiglio, sulla base di una necessaria previa indagine, di un regolamento apposito allo scopo, che estendesse l’imposizione di detti dazi ai prodotti importati da determinati Paesi, subordinatamente alla verifica dell’esistenza concreta di pratiche commerciali elusive per tali prodotti; oppure, la precisa dimostrazione dell’effettiva origine cinese di tali prodotti.

Questo, in quanto allorché la verifica della origine ai fini doganali risulti solo da un’indagine dell’OLAF, l’onere della prova sulla circostanza che le relative informazioni riguardino specificamente e proprio i prodotti importati resta in capo all’autorità doganale; ne consegue che una determinazione doganale che sia basata esclusivamente su una relazione dell’OLAF – a condizione ovviamente che i contenuti di quest’ultima non si riferiscano in maniera assolutamente non equivoca all’operazione d’importazione in questione – dovrà ritenersi invalida.


Prof. Avv. Salvatore Vitale


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