Il Decreto legislativo n. 231 dell’8 Giugno 2001 ha introdotto nel sistema normativo italiano la responsabilità personale e diretta dell’impresa per reati commessi a beneficio o nell’interesse di un’impresa da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'impresa stessa o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale, ed inoltre da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo della stessa, nonché da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno di tali soggetti, a meno che tali persone abbiano agito nell'interesse esclusivo proprio o di terzi.
La sanzione per tale illecito è sempre di natura pecuniaria, fissata sulla base delle sue condizioni economiche e patrimoniali per assicurare l'efficacia della stessa; ad essa la sanzione si può aggiungere – secondo la natura del reato - l’esclusione dell’impresa da gare ed appalti pubblici, la confisca di beni aziendali, la sospensione o revoca di autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali allo svolgimento dell'attività dell’impresa.
In base all’art. 35 del D. Lgsl. 231, all’impresa si applicano le disposizioni processuali relative all'imputato, in quanto compatibili.
Secondo il successivo art. 39, l’impresa partecipa al procedimento penale con il proprio rappresentante legale, salvo che questi sia imputato del reato da cui dipende l'illecito amministrativo.
Proprio in relazione a tali ultime norme citate, sorge l’obbligo per la Giustizia Penale di assicurare a tale rappresentante legale le medesime garanzie processuali di una persona fisica, in base al principio costituzionale del giusto processo.
Ne consegue che, se la società è di diritto estero, tutti gli atti processuali devono essere tradotti nella lingua del rappresentante legale: tale principio è stato di recente ribadito dal Giudice delle Indagini Preliminari (GIP) del Tribunale di Milano, con provvedimento del 25 Maggio 2022, che riguardava una società con sede nei Paesi Bassi coinvolta – in base al D. Lgsl. 231 – in un reato di corruzione.
Il difensore della società ha richiesto che venisse riconosciuta la nullità del procedimento per la mancata traduzione dell’atto giudiziario nella lingua conosciuta dal legale rappresentante della società, cittadino straniero.
Il GIP ha riconosciuto la validità di tale istanza, stabilendo che la persona giuridica estera deve essere messa in grado di esercitare tutti i diritti previsti dall’ordinamento italiano per la sua difesa.
Per quanto riguarda la lingua da selezionare per tale circostanza, essa deve essere quella effettivamente conosciuta dal legale rappresentante, oppure, secondo il caso, dal preposto alla sede secondaria italiana.
Le obiezioni del Pubblico Ministero che la società non potesse ritenersi estranea alla conoscenza del diritto italiano, dal momento che essa aveva partecipato a parecchie gare pubbliche d’appalto, compresa quella in merito alla quale era stato commesso il reato, ed era da tempo attiva dal punto di vista commerciale sul mercato italiano, non sono state recepite dal GIP, il quale ha invece ritenuto che tali attività potevano essere state portate avanti da dipendenti o consulenti italiani della società debitamente incaricati dal suo legale rappresentante straniero senza che per questo fosse necessaria un’ottimale conoscenza della lingua italiana, mentre, per quanto riguarda gli atti processuali, tale buona conoscenza è invece richiesta dalla legge.
In conclusione, il GIP ha ritenuto nullo l’atto di contestazione dell’illecito amministrativo connesso al reato di corruzione notificato nella sola lingua italiana al legale rappresentante straniero, restituendo gli atti così ritenuti invalidi al Pubblico Ministero, e riaffermando il principio costituzionale del giusto processo pure quando sono implicati legali rappresentanti stranieri d’imprese coinvolte in un procedimento instaurato sulla base del D.Lsgl. 231 del 2001.
Prof. Avv. Salvatore Vitale
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